“Io sto con la sposa”

Il dramma dei migranti sbarca a Pergine Valsugana. All’interno del festival SenzaConFine il pluripremiato documentario “Io sto con la sposa” e uno dei suoi autori, Gabriele Del Grande.

Un poeta palestinese siriano e un giornalista italiano incontrano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra, e decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri però, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un'amica palestinese che si travestirà da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si travestiranno da invitati. Così mascherati, attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Una storia apparentemente fantastica ma terribilmente vera, accaduta sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013. Divenuto il più grande documentario finanziato “dal basso” nella storia del cinema italiano (100 mila gli euro donati da 2617 cittadini di 38 Paesi del mondo) Io sto con la sposa ha vinto 4 premi al Festival del Cinema di Venezia ed è stato visto in questi primi 6 mesi dalla sua uscita, da 130 mila spettatori di oltre 350 città italiane. Tra queste anche Pergine Valsugana che il 20 aprile scorso ha ospitato uno dei suoi autori, Gabriele Del Grande, al nuovo Teatro all’interno del Festival SenzaConFine.

Che cosa vi ha spinti a intraprendere questa avventura, che poteva costarvi fino a 15 anni di carcere per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, e a trasformarla successivamente in un film?

Siamo tutte persone che hanno lasciato un pezzo di cuore in Siria. Eravamo in ventitré, questo infatti il numero di invitati al finto corteo nuziale, e chi per un motivo e chi per l’altro ci sentivamo toccati personalmente dal dramma della guerra siriana. Quando per caso, a Milano, abbiamo conosciuto quelli che sono diventati poi i protagonisti del film (Abdallah, Manar, Alaa, Mona, Ahmed e Tasnim) abbiamo deciso di dar loro una mano e di portarli in Svezia, dove sognavano di andare per trovare un rifugio sicuro. Sapevamo che avremmo corso dei rischi nel caso in cui ci avessero fermato alle frontiere ma al contempo, avendo avuto una esperienza diretta con la Siria, eravamo consci che erano stati molto più grossi i rischi che avevano affrontato loro in guerra e in mare rispetto ai nostri. Guardavamo più alla giustezza di quello che stavamo facendo che non al resto.

C’è stato un momento però in cui vi siete detti: “ma chi ce lo fa fare”?

A dire il vero ben più di un momento. Per fortuna eravamo un gruppo e quindi quando qualcuno era giù di morale c’era subito qualcun altro che lo tirava su. Ciò che abbiamo fatto era esattamente quello che dovevamo fare. Una cosa tecnicamente illegale ma umanamente giusta. Abbiamo aiutato dei cittadini in fuga da una guerra a raggiungere la loro destinazione.

Il film a tratti fa sorridere ma lascia, soprattutto, un grande amaro in bocca: dal tragico naufragio a Lampedusa del 3 ottobre del 2013 di cui si parla in “Io sto con la sposa” a quello ancor più terribile accaduto nei giorni scorsi, non sembra essere cambiato niente. Anzi. La conta dei morti è sempre più alta. Quando all’ondata emotiva farà seguito un’azione reale?

Sono vent’anni che la storia va avanti; i primi naufragi risalgono al 1988 nello Stretto di Gibilterra. Da allora non è cambiato nulla ed è questo il problema. L’Europa, morto dopo morto, continua a non capire che la risposta non è quella militare, non è quella dei respingimenti ma è quella di offrire, di aprire dei canali legali su cui viaggiare. Avere un visto dai Paesi dai quali queste persone partono è impossibile. Bisognerebbe lavorare lì piuttosto che sul soccorso in mare. Certo, bisogna anche riconoscere che esistono delle difficoltà tecniche; il canale di Sicilia non è il lago di Garda, è una zona molto vasta, molto estesa e nonostante gli sforzi della Marina italiana e della Guardia costiera la situazione è veramente difficile. Basti pensare che in questi giorni i nostri mezzi hanno soccorso anche 10-15 imbarcazioni al giorno. Nell’emergenza servirebbero sicuramente più mezzi, l’Europa dovrebbe dare una mano per mettere in piedi un’operazione di salvataggio qual’era Mare Nostrum che purtroppo è stata chiusa. La soluzione però, ripeto, va cercata a monte, permettendo banalmente alle persone di viaggiare con un passaporto in tasca anziché di mettersi in mano al contrabbando.

C’è qualcosa che le persone non hanno ancora capito dei migranti e che sarebbe ora comprendessero?

Che siamo uguali. Purtroppo però lo abbiamo rimosso. Se pensassimo davvero di essere tutti uguali i 700 morti della strage del Mediterraneo dei giorni scorsi ci avrebbe fatto molto più male. C’è un problema alla base di tutto: questo sentirsi superiori. Questa frontiera ci ha davvero allontanati a livello umano e culturale, prima ancora che politico. Quello che vorrei che il film lasciasse è proprio questo: l’idea che possa esistere un noi, l’idea che questo mare Mediterraneo da cimitero in cui è stato trasformato dai burocrati e politicanti europeo possa tornare ad essere un mare che ci unisce, un mare in cui ci si può guardare negli occhi, darsi una mano. Più che denunciare, il nostro intento è dire che c’è un mondo possibile, diverso, fatto di amicizia mediterranea. Un mondo dove, insisto, c’è un noi; perché fino a quando non ci sentiamo tutti a pieno titolo parte della stessa famiglia non si va lontano.

Chiara Limelli - redazione UnderTrenta

23/04/2015