L’acceleratore rinasce e collega arte e scienza
Inaugurata nella corte di Povo 1 l’opera d’arte realizzata da Tadiello a partire dalla macchina dismessa di Scotoni
“Chiamati alla veglia, trattennero il respiro. Due orecchini. Due pendoli. Sono carichi sospesi. Custodi della gravità. Vegliano sulle teste e sui flussi di pensieri che transitano lì, appena sotto”. Alberto Tadiello, 2016
Come due grandi pendagli, che abbelliscono e danno personalità al volto dell’edificio. L’opera d’arte dal titolo “Chiamati alla veglia, trattennero il respiro” di Alberto Tadiello, omaggio all’acceleratore ionico, costruito dal professor Igino Scotoni nel 1985 e dismesso nel 2004, è stata inaugurata nella corte di Povo 1 al Polo scientifico e tecnologico Fabio Ferrari, sotto la copertura di vetro e metallo che collega tra loro i vari corpi della costruzione.
«Sono due organismi atomici, che recuperano alcuni pezzi dell’acceleratore – spiega Tadiello – e li mostrano, alzandoli. Agganciati e inglobati in un sistema di tiranti, ganci e catene si disegnano nello spazio con un semplice gesto di messa in esposizione. Il lavoro apre a diversi livelli di lettura. E diventa grappolo, ancora, alveare, lampadario, gioiello, massa, corpuscolo. Ha una postura composta, un’anatomia filiforme».
Alberto Tadiello, artista vicentino classe 1983, era risultato vincitore con il suo progetto per la congruenza con le finalità del bando, la qualità artistica e culturale, la fattibilità e la permanenza nel tempo fra 40 proposte del concorso di idee promosso nel 2015 dal Dipartimento di Fisica dell'Università di Trento e dal Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Ai candidati era richiesta una proposta che suggerisse la continua evoluzione della ricerca scientifica e del progresso della scienza.
Con l’artista, oggi all’inaugurazione, c’erano per l’Università di Trento il rettore Paolo Collini, il direttore del Dipartimento di Fisica Lorenzo Pavesi e il professore emerito Renzo Leonardi, insieme al direttore del Mart Gianfranco Maraniello, al sindaco di Trento, Lorenzo Andreatta e all’architetto Alberto Winterle, in rappresentanza della Commissione giudicatrice.L’iniziativa è stata organizzata dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento in collaborazione con il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, con il patrocinio della Provincia autonoma di Trento, del Comune di Trento e dei Giovani Artisti italiani (Gai), con il contributo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN).
1985-2004: la storia dell’acceleratore al servizio della ricercaIl professor Iginio Scotoni è il padre dell’acceleratore trentino. Dopo un periodo passato presso i laboratori INFN a Legnaro dove sviluppa la tecnologia degli acceleratori, Scotoni realizza a Trento il primo acceleratore trentino. Finito di progettare nel 1985, l’acceleratore cercava di soddisfare le richieste di un campo della fisica allora molto vivace, interessato a modificare le proprietà dei materiali attraverso il bombardamento con ioni energetici. Ed è così che, ponendo nella camera di interazione il bersaglio sul quale gli ioni andavano a impattare, il macchinario permetteva di studiare le proprietà di interazione tra radiazione e materia, nonché di cambiare le proprietà superficiali del materiale trattato, ad esempio aumentandone la resistenza meccanica o alterandone la conducibilità. Altre volte, il bombardamento ionico poteva servire a produrre leghe non presenti in natura, oppure facilitare reazioni chimiche superficiali altrimenti impossibili.
Un progetto particolarmente interessante condotto all’Università di Trento grazie all’acceleratore mostrò la possibilità di ridurre sensibilmente il coefficiente di attrito di alcuni materiali, al fine di evitare il ricorso all’utilizzo dei lubrificanti nel trattamento delle componenti dei motori. Su questi temi, proprio negli anni ’80 era attiva una collaborazione tra l’Università di Trento e il Centro ricerche FIAT.Dopo aver contribuito per molti anni agli studi condotti nel Dipartimento di Fisica, il macchinario venne dismesso nel 2004 e sostituito da altri acceleratori, tuttora funzionanti. Queste apparecchiature hanno costituito il nucleo del laboratorio “Impianto ionico”, poi confluito nell’attuale Laboratorio IdEA. L’ambito di ricerca del laboratorio è ancora legato agli scopi originari del progetto, primo fra tutti la sintesi di nuovi materiali attraverso la modifica della superficie di quelli esistenti in natura. Gli esperimenti si stanno concentrando ora sul vasto settore dell’energia e dell’ambiente, dalla sintesi di combustibili solari alla purificazione dell’acqua. Qualche tempo fa, inoltre, è stata avviata una collaborazione tra il Dipartimento di Fisica e l’Istituto Italiano di Tecnolgia (IIT), con l’obiettivo di sintetizzare nano-diamanti che il laboratorio IdEA produrrà tramite tecniche di deposizione laser, e che dovranno poi essere modificati con l’introduzione di atomi di azoto proprio attraverso l’impianto ionico.Ma come funziona un acceleratore ionico? Il nome potrebbe far pensare a qualcosa di estremamente complesso; in realtà è un impianto dal funzionamento piuttosto semplice. Un dispositivo estrae degli atomi dotati di carica elettrica da un materiale, chiamato sorgente, e li trasforma in particelle ad alta energia cinetica attraverso l’uso di opportuni campi elettrici o magnetici.
Le particelle vengono accelerate in un tubo, in cui viene creato un vuoto molto spinto che impedisce la perdita di energia negli urti con gli atomi dell’aria. Il tubo conduce poi queste particelle fino a una camera di interazione e di misura, dove è possibile studiare e utilizzare gli ioni altamente energetici per gli scopi più svariati.Ovviamente, quando si parla di acceleratori il pensiero corre subito al Cern di Ginevra, dove è funzionante un acceleratore di tipo circolare: nel quale, cioè, le particelle percorrono varie orbite concentriche, aumentando progressivamente la velocità nel passaggio dall’una all’altra. Quello conservato negli scantinati del Dipartimento di Fisica, invece, è un acceleratore di tipo lineare. Ma non è questa l’unica caratteristica che lo differenzia dal più celebre collega ginevrino. Il ciclotrone del Cern, costruito del resto circa trent’anni dopo l’impianto di Trento, sfrutta infatti tecnologie molto più avanzate, utilizzando particelle elementari che come proiettili vengono accelerate ad energie elevatissime (calcolabili in teraelettronvolt). L’acceleratore trentino, invece, composto in massima parte da acciaio, oltreché da alluminio e vari tipi di materiale ceramico, usa perlopiù ioni di Azoto e di Argon, che raggiungono velocità assai inferiori, ma comunque funzionali agli scopi per cui il macchinario era stato progettato. (Ufficio stampa Unitn)
02/11/2016