La fortezza senza tempo

Il monte di san Martino è il saliente di una linea di presìdi che attraversa per chilometri il Trentino meridionale

[ foto Voltolini]

A ondate irrompono e travolgono i confini, sono centinaia, migliaia e sconvolgono l’Europa. Chi da qui li guardava e li temeva li ha definiti “barbari”. Nella realtà un mondo di etnie e di tribù spinte verso occidente da altri, bellicosi e disperati alle loro spalle. Parlano lingue e hanno costumi diversi, differenti la cultura, la religione, i modi di vita. Da principio chiedono asilo con le loro famiglie dando in cambio braccia per il lavoro ai nobili romani, servi quasi schiavi pur di vivere. Combattono per loro ai confini: “barbari contro barbari”. Disperati e affamati, poi si impongono con le armi: di loro narrano gli storici: Vandali, Burgundi, Unni, Avari, Ostrogoti e Visigoti, Longobardi, Franchi e altri ancora. La nuova Europa che nasce, un mondo altezzoso che cambia, tragicamente, drammaticamente, inconsapevolmente. Le Alpi diventano frontiera, come mai accaduto prima; ma sono permeabili, attraversabili, vulnerabili. Chi preme da Est e da Nord questo lo sa, le incursioni e le razzie si ripetono reiterate. I numeri da opporre sono scarsi: gli strateghi consigliano una difesa passiva, affidata ai luoghi e alla natura: strettoie, passaggi obbligati, alture poco accessibili, montagne. Si realizzano sbarramenti, si costruiscono avamposti, si impiantano castelli e fortezze, si insediano presìdi di soldati con le loro famiglie, che poi devono essere riforniti, mantenuti, pagati. Immane lo sforzo, che dissangua le finanze pubbliche: quanto lo Stato è ancora in grado di riscuotere con il fisco serve a questo.

A questo panorama appartiene il monte di san Martino, saliente di una linea di presìdi che attraversa il Trentino meridionale, per chilometri: dalla val Lagarina ai contrafforti del Brenta tagliando per le Giudicarie. Dall’alto lo sguardo coglie un fascio di strade che dalle Alpi retiche portano verso l’Italia: ultimo lembo dell’impero. A unirle è il Lomaso, poi il lago di Garda e le città dell’alta pianura centrale, che vanno difese.

Per questo il monte è stato scelto. Una fortezza naturale, possente, strategica, aspra: rocce piombanti attorno, pochi i varchi. Viene edificato, mentre al di là delle Alpi - lontano ma non troppo - gli Unni di Attila lungo il Danubio fino alla valle del Rodano stanno devastando terre, campagne, villaggi e città. Abili e ben equipaggiate maestranze vi lavorano, cavano pietre, spianano superfici, innalzano muri, fabbricati. Molti l’hanno usato, diverse le tracce. Poi i tempi cambiano di nuovo: Carlo Magno, re dei Franchi e dei Longobardi. Le Alpi di nuovo con il Nord e il Sud dell’Europa, una sola corona, il Sacro Romano Impero: la fortezza non serve più, le vie vengo riaperte, i traffici riprendono, i conflitti sono sedati, i re diventano vassalli. Per il monte inesorabile, la storia si fa silenzio, pietre e rovine che la foresta gradualmente cancella, nasconde, ma non scompaiono. La gente che sale le conosce, il ricordo si è distorto, leggenda e mito delle origini, remote, perdute, astoriche.

Nel 1998 l’avvio di progetto di verifica: si ripercorre il luogo, si cercano le tracce, si tenta di ricomporle per comprenderne il significato. Da allora, all’alba del nuovo millennio, un lavoro interrotto, complesso, impegnativo, faticoso, ancora in corso. Ad avviarlo l’Amministrazione comunale di Lomaso: nuove forze si aggiungono, l’impegno si accentua, condiviso, partecipato, da molti: amministratori, docenti universitari, ricercatori, archeologi, studenti, operai, restauratori, forestali; l’eco si fa via via internazionale. A rappresentarlo i numeri: l’ampiezza della fortezza (almeno 17.000 mq), che rende il luogo il più vasto contesto fortificato del Trentino di età precedente al medioevo e unico per grado di sopravvivenza; il numero delle persone coinvolte dalla ricerca sul terreno: oltre duecento giunte da tante regioni italiane e da diversi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna, Grecia, Austria, Slovacchia, Slovenia, Polonia); più di 60.000 le ore di lavoro spese nelle varie attività; migliaia i metri cubi di terra e di pietre rimossi, vagliati, spostati, ricollocati; seimila i metri quadrati di superficie archeologica indagata e quindi restituita, ripristinata dopo gli scavi con ampie sopravvivenza di ciò che qui un tempo è stato: mura, torri, porte che sbarrano le strade d’accesso, sedimi e superfici di edifici e di fabbricati.

A sostenere tutto ciò le Amministrazioni e gli Enti locali, per prime responsabili ora di questo luogo e del suo futuro perché si conservi, sia rispettato, mantenuto. Determinanti per la scoperta e la ricerca l’intervento della Provincia autonoma di Trento, con la Soprintendenza per i beni Culturali, e dell’Accademia delle Scienze della Baviera (Bayerische Akademie der Wissenschaften), il più importante apparato di ricerca scientifica del Land tedesco presente sul san Martino con risorse, finanziamenti e personale propri dal 2008.

Vertice dell’insediamento e del luogo è una chiesa, che i lavori hanno riportato a nuova vita nello stato sopravvissuto: mura alte verso il cielo, bianche come la roccia sulla quale sorgono. Un edificio costruito all’alba dell’età cristiana. Anonimi i fondatori, qui rimasti sepolti come privilegio e ritrovati dagli archeologi, dopo quattordici secoli mentre attorno tutto cambiava come cambiava anche l’edificio, il suo significato, la sua forma, le relazioni: in principio è stato un mausoleo funerario, espressione di rango e di potere oltre la morte di chi se ne è servito come ultima dimora nella memoria, nella preghiera, nel suffragio. Affievolito questo, lo spazio viene reinterpretato e consacrato, senza però una comunità. L’epoca é quella di Carlo Magno, il patrono San Martino, il ruolo quello di guida visiva nel paesaggio per chi cammina tra le asperità dei monti. Come tale entra a far parte di una trama di relazioni più ampia. Ad assicurarla le reliquie conservate all’interno, venerate, visitate, pregate; vincolo stazionale di una topografia rurale pievana praticata con processioni e visite comunitarie, ininterrotte fino al Novecento.

Arrivare fin qui pone l’obbligo di camminare lenti come gli antichi viandanti ed i pellegrini, con i propri pensieri, le proprie incertezze, il desidero di andare. Una volta giunti, si colgono le rovine ma prima ancora la dimensione di un tempo che è fuori dal tempo, di cui non parlano i libri di storia, diverso e assente dal nostro. Osservarlo aiuta forse a capire il presente e le sue contraddizioni fatte anch’esse di immagini, che però la velocità con cui compaiono e scompaiono non permette loro più di diventare rovine. Questo sullo sfondo di un dibattito che vede – allora come oggi – popoli migranti, che accomuna il monte di san Martino al nostro presente, paventandone i rischi e le incerte prospettive anche se poco hanno al riguardo da insegnarci quelle avute da chi qui è vissuto, incanalate come furono dalla storia in circostanze, condizioni e percorsi diversi.

come arrivare sul monte di san martino

Il monte è raggiungibile in ogni stagione, con una facile camminata su strada e sentieri forestali, percorribili anche con mountain bike. Raccomandati sono abbigliamento e calzature idonei e una borraccia d’acqua. Si consiglia di raggiungere Lundo e, lasciata la macchina, seguire il segnavia SAT 425 con indicazione “monte di san Martino” e “malga di Vigo” (con deviazione per il monte segnalata lungo il percorso). Distanza totale: km 3 ca; dislivello: m 240; tempo di percorrenza: 1 ora circa. Ritorno per la stessa via. Altra via, più impegnativa, è direttamente da Vigo Lomaso, seguendo sempre il segnavia SAT 425 che si imbocca dalla strada provinciale, sulla destra, subito dopo aver lasciato la pieve di san Lorenzo e poco prima della chiesetta di San Silvestro.

https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/Area-archeologica-di-Monte-San-Martino-Lomaso-l-attivita-di-scavo-prosegue-grazie-ad-un-progetto-di-ricerca-internazionale

Enrico Cavada - Soprintendenza per i beni culturali

30/05/2016