Annamaria Targher. Trait d'union: collage

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Annamaria Targher - Carta da parati. Cineseria (prt.), 2015, olio e collage su tela, cm 125x113

Non dipingere l’oggetto in sé, ma l’effetto che produce.
Stéphan Mallarmé a Edward Manet

Nel quartiere storico di Santa Maria due realtà molto rinomate e presenti sul territorio aprono le porte all’ultima produzione di Annamaria Targher.
L’artista trentina dopo aver lavorato assiduamente alla tematica animale, vista come unica possibilità di auto – ritrarsi, ritorna con l’ultimo ciclo alla tematica astratta. Ciò che ha caratterizzato il definirsi di un autentico bestiario (Galline, Capre, Mucche, Asini e, infine, Caprioli) che copre il periodo che va dal 2011 al 2015, è l’impiego massiccio del collage: applicato con pazienza quasi maniacale e connotato da significati spiazzanti e quasi surreali.
L’impiego deliberato e quasi dissacratorio di questa tecnica, è il filo conduttore dell’esposizione e l’unico forte elemento di raccordo tra le due distinte produzioni.

Nei Caprioli ospitati presso il Circolo Operaio, molta attenzione è riservata al contesto: la definizione dell’immagine è quasi una risultante del mondo che contiene la bestia e, il più delle volte, è proprio l’attorno che definisce la linea di demarcazione dell’animale, il suo essere soggetto.
In questa serie compaiono gli elementi dell’impalpabilità, della fugacità, della sacralità dell’animale dal manto dorato. Il capriolo è sempre in allerta: su di lui incombe massiccia e insensata la minaccia dell’uomo, ingiustificabile nell’attuale mondo raffinato che vorrebbe vantare il primato della civiltà. L’esigenza di uccidere, di sopprimere la nostra anima (la nostra parte animale) invece, permane e, a momenti, pare poter vincere.
Il capriolo, quindi, si rarefa, evapora: negli ultimissimi lavori, diventa un simulacro, poche linee lo individuano e la tela viene lasciata trasparire nella sua spiazzante nudità. Il pericolo, la minaccia sono dati da un autentico bombardamento di oggetti antropici a cui è sottoposto l’animale. Più che l’annientamento, è presente lo sfinimento per il mondo roboante, ma sordo che ci circonda e che trascina con sé la sparizione del sacro momento del silenzio, presupposto fondamentale perché il capriolo ci appaia nella sua autentica e imperitura bellezza.

In Corniceria, invece, sono esposte tele verticali (le ultimissime) il cui tema è il rincorrersi di una matrice astratto decorativa che emula le frange delle conifere così care all’artista. Dal ritmo verticale della colata, alle concrezioni fatte di pennellate spesse e corpose (che altro non sono che il tentativo di appropriarsi sia della maestosità monumentale di questi alberi, che dei piccoli scrigni in essi contenuti, come i nidi), lo sforzo dell’autrice è teso a riproporre il non quantificabile, ma incontrovertibile benessere che il contatto con queste creature fornisce a chiunque ne venga a contatto.
Riconoscendo come la percezione di un oggetto sia una realtà del tutto soggettiva, l’artista si esibisce in autentiche e capricciose “follie” che ricordano una realtà ben lontana dall’Occidente e dal suo repertorio classico: le “cineserie”. Nello stesso tempo e con questa citazione, si appropria di un altro dato storico importante: sviluppatesi esclusivamente nelle arti decorative o in forme architettoniche il cui scopo era anch’esso solo decorativo, le cineserie nel secolo XVIII definirono prepotentemente lo stile prettamente paesaggistico dei giardini inglesi ed europei.
Dato effimero e capriccio attraverso pennellate astratte, veloci e non curanti e puntuale ricognizione del dato di natura attraverso l’uso puntuale del collage che colloca animali o varietà floreali di carta sulla tela, le “cineserie” sono l’estremo atto di libertà e di contaminazione di un’artista che ha collocato il dato naturale al centro della propria personale ricerca.