Brooklyn

Cinema

Regia: John Crowley 

Genere: drammatico

Durata: 113 minuti

 

 

Ellis sta per partire per l'America, in Irlanda sembra non avere un futuro e la famiglia, aiutata dal prete, la spedisce nel nuovo mondo in nave. Sono gli anni '50. A New York si ambienta a fatica e combatte con un'insopprimibile nostalgia fino a che non conosce un ragazzo italoamericano. Quando la morte dell'unica sorella, rimasta in patria a badare alla madre, la costringerà a ritornare brevemente a casa si accorgerà di quanto di sè ha lasciato in quei luoghi e di quanto il fascino di una vita lì, in quel mondo che ora le sembra lontano da quello moderno ma poco elegante e poco composto dell'America, sia ancora forte in lei.
Non vuole inventare niente Nick Hornby, che adatta per lo schermo la storia di un'emigrante che lotta prima contro la nostalgia e in seguito per affermare il proprio diritto a una vita indipendente. Semmai vuole ripercorrere orme più grandi, lasciate da molti prima di lui. Forse proprio per la ragionevole umiltà artistica, unita alla consueta arroganza intellettuale dei suoi testi che non si vergognano di intendere i sentimenti come materia complessa che fiorisce in persone semplici,Brooklyn suona così riuscito. Del melodramma questo film così fieramente tradizionalista ha tutto, dalle malattie alle angherie fino al doppio amore e all'insopprimibile dilaniamento dell'animo, ma è anche evidente che questa celebrazione dell'America come mondo nuovo, non solo oggettivamente ma anche soggettivamente per la sola vita della protagonista, cela il desiderio di avere una scusa per scrivere il più naive e dolce degli animi femminili. Non un film quindi che martori la donna per confermarla come punto d'attrazione della sofferenza emotiva, corpo vessato dal dolore, ma ammirazione per un animo mite e distinto, funestato dai sentimenti.
C'è una qualità commovente nella dimessa eroina di Saoirse Ronan, nella sua dignitosa compostezza e nella maniera inibita con cui cerca il proprio posto nel mondo. Sul suo fisico gracile ("Attenta che agli italiani piacciono le donne in carne", la avverte la sua datrice di lavoro) non si abbatte però solo lo struggimento del melò. Brooklyn sta molto attento ad usare i suoi colori caldi e i cambi di paesaggio (dall'Irlanda a New York e ritorno) per cercare di espandere la passione per i sentimenti incontenibili anche all'eccitazione della gioia o all'estasi dell'appartenenza. 
Nonostante le necessarie difficoltà presenti nella trama, in Brooklyn emerge soprattutto un percorso di purificazione verso la positività, il lavoro necessario a guadagnare una propria identità indipendentemente da quelle conferite da patria e famiglia. Addirittura anche la consueta figura malefica, la persona che vuole male alla protagonista e si frappone tra lei e la felicità creando l'intreccio, occupa un ruolo marginale, perchè Brooklynlavora sulle conquiste più che sulle perdite.
Non è un caso ovviamente che la costruzione di una vita autonoma, lontano dalla terra d'origine, coincida con la costruzione di un'identità nazionale per uno stato che l'ha disegnata intorno alla multiculturalità. Il posto dove tutti da tutti i luoghi del mondo possono costruire se stessi (il sogno americano declinato anche in chiave minimalista, ambire ad un posto da contabile) è stato definito proprio da questa eterogeneità. Nel raccontare di Eilis dunque Brooklyn racconta dei luoghi che attraversa, degli uomini dolcemente rassegnati d'Irlanda (non sempliciotti ma "eleganti e composti"), delle donne disinibite e delle necessarie forze conservatrici che le tengono a bada. Il period movie di Hornby e Crowley è dunque perfetto, muove dei singoli per narrare una comunità e uno stato con il fine di mettere in scena una precisa fase storica nel suo portato romantico. Una volta tanto non è la qualità delle ambizioni a fare la differenza, ma la capacità di maneggiare la materia più semplice con la giusta delicatezza.