Heimat: l’ultima guerra del capitano Robert Musil
Il capitano Robert Musil giunge a Vienna nel marzo 1918. Vista la sua precedente esperienza bolzanina alla direzione della Soldaten-Zeitung, viene assegnato alla redazione di un nuovo “settimanale patriottico”, Heimat, di cui diviene direttore e gerente. Nel giro di poco tempo, all’edizione in lingua tedesca il settimanale ne affianca una ceca, una ungherese e una croata, rispettivamente: Domov, Üznet e Domovina. Edizioni una diversa dall’altra. Cesserà la pubblicazioni con l’uscita del 24 ottobre 1918, che precede di poco il crollo dell’Austria-Ungheria.
Heimat rimanda a uno degli elementi portanti del mito asburgico: l’idea di una missione sovranazionale dell’Impero chiamato a costruire l’Heimat di una comunità di stirpi diverse. Il titolo è parallelo a quello del mensile Donauland, che nel contrappone il Danubio al Reno, il mondo della purezza delle stirpi, il Reno, al mondo della mescolanza, alla “grande missione dell’Austria: unire, costruire ponti fra l’est e l’ovest”.
Molti articoli hanno come tema la pace prossima ventura. I toni sono del tutto scontati, da propaganda: “Ci avviciniamo alla pace: con passi lenti certo, ma sicuri”, si dice nel primo degli articoli di Musil, in una sorta di enunciazione di intenti. Poi si elencano i risultati raggiunti.
La guerra è arrivata “con l’ebrezza dell’avventura, con lo splendere di misteriose coste lontane”. Il suo scoppio è stato accompagnato da grandi manifestazioni di entusiasmo. “Al principio, al momento della dichiarazione di guerra ci fu entusiasmo. Tutti ma davvero tutti, tedeschi e slavi e ungheresi, giovani e anziani, operai e borghesi ne furono conquistati e se ne lasciarono trasportare... dominava un solo spirito, quello della disponibilità alla lotta e al sacrificio”.
Il giudizio positivo sull’entusiasmo dei primi giorni di guerra attraverserà l’intera opera letteraria dello scrittore austriaco, che in alcuni scritti ne sottolinea due aspetti centrali: quello religioso e quello comunitario.
Ne “La fine della guerra”, del 1918, Musil osserva che se la guerra era stata una “fuga dalla pace”, il bisogno di uno schianto metafisico ovvero di una lacerazione del tessuto esistenziale dell’uomo a causa di un’insoddisfazione stratificatasi in tempo di pace, come noia della pace, allo stesso modo “questa guerra, in concreto, non può finire perché nessuno è attratto dalla pace”.
E infatti l’armistizio non segnò la fine delle ostilità. Lette oggi le parole di Musil sembrano meno paradossali di allora. Il 1919 apre in Europa un quinquennio di conflitti, insurrezioni e altre guerre che causarono oltre 4 milioni di vittime. Alla guerra non fece seguito la pace: “La guerra mondiale era finita formalmente con la conclusione dell’armistizio”, ha affermato nel novembre 1919 Pëtr Struve, “tuttavia, tutto ciò che da quel momento in poi abbiamo esperito, e continuiamo a vivere, è la prosecuzione e trasformazione della guerra mondiale”.
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