Lux In Tenebris. Anatomia della barbarie: La distruzione della biblioteca di Sarajevo
Incisioni dellartista bosniaco Irfan Hozo
Risulta scomodo e ingombrante quel pensiero che riesce a dimostrare, e non è difficile, che un altro mondo è razionalmente possibile, non soltanto come utopia, ma anche come intreccio di scelte concrete, cioè scelte che riguardano la vita e la responsabilità di singoli individui. Questo pensiero ci porta necessariamente ad interrogarci sugli obiettivi della nostra vita, sui nostri comportamenti, analizzando i motivi che li determinano, arrivando dunque anche a dubitare delle ragioni per le quali facciamo ciò che facciamo. Appare chiaro che un pensiero di tal fatta possa risultare perfino irritante per molti, non solo per i potenti, ma anche per tutti quelli che in un modo o nell'altro non vogliono essere disturbati nel loro quieto vivere, culla di ogni banalità, comprese quelle più orribili. Ci viene a questo proposito in soccorso la biografia di David Oppenheim, recentemente pubblicata dal nipote Peter Singer, un filosofo, che forse meglio di altri ha riportato l'etica sul piano delle scelte quotidiane di ognuno. David Oppenheim era uno straordinario eppur normalissimo professore di lettere, che, amico di Freud, frequentò per due anni il famoso "Gruppo del mercoledì", formalmente conosciuto come la Società Psicoanalitica di Vienna", ma che in seguito rinunciò alla collaborazione con Freud per sostenere Alfred Adler. Morì il 18 febbraio del 1943 in un lager nazista alla maniera di milioni di altri ebrei. Se a distanza di mezzo secolo il nipote ha deciso di togliere il pensiero e la vita del nonno materno dall'oblio probabilmente è perché si è reso conto di quanto egli si fosse interrogato sul significato dell'espressione "essere umano". Scrive infatti: "Mio nonno distingueva tra il filosofo genuino, che cerca di integrare il suo insegnamento con la propria vita, e il professore teoretico, che si preoccupa solo della posizione accademica e della reputazione personale. Questa distinzione mi echeggiò dentro". È significativo peraltro che il motivo conduttore della ricerca di Peter Singer, non a caso intitolata "Ciò che ci unisce non ha tempo", sia un dubbio di portata estrema. "C'è una terribile e tragica ironia nel fatto che mio nonno passò tutta la vita a cercare di capire i suoi simili eppure sembra che non riuscì a rendersi davvero conto della minaccia che incombeva sulla comunità ebraica di Vienna e che alla fine lo portò alla morte. Mio nonno aveva forse troppa fiducia nella ragione e nei valori umani cui aveva dedicato la sua esistenza di studioso? Questo lo rese forse incapace di immaginare che potessero essere completamente calpestati al punto di permettere alla barbarie di dominare l'Europa? Queste domande conducono a un pensiero inquietante. Dal momento che la mia vita, proprio come quella di mio nonno, si fonda sulla possibilità che la ragione e i valori etici universali abbiano un ruolo significativo nel mondo, potrei rimanere deluso come lui?" Ho voluto cominciare da qui, dalla debolezza storica del pensiero utopico, che nonostante i suoi eroici ritorni, risulta perennemente sconfitto, pur contribuendo a spostare più avanti l'asse dei valori e dei diritti, per sottolineare con più forza il ruolo particolare del pensiero e del fare artistico dentro il flusso più generale del pensiero utopico. L'arte oltrepassa i limiti della ragione, comprende il negativo, il male, riesce a vederne la compresenza, la cointeressenza con ogni spostamento progressivo della storia e dell'individuo; l'arte, per definizione, non indaga soltanto la realtà ma il mistero nel quale la realtà e immersa.
L'arte, nonostante ma forse anche grazie ad Adorno e ad Horkheimer, alla loro dialettica negativa e al loro pessimismo radicale, è riuscita a mantenersi viva ed a esprimere con diversi linguaggi il disagio e il coraggio dell'uomo anche dopo Auschwitz; da questo punto di vista, anche quando l'arte esprime la più cupa visione , riesce a non stendere mai una coltre definitiva sul desiderio e sull'archetipo nostalgico dell'età dell'oro, di uno stato edenico primigenio, ribaltato nel futuro come cieli e terra nuovi, come città del sole, come sole dell'avvenire o più semplicemente e laicamente come società più giusta. L'arte non può mai essere allineata, deve essere sempre critica, disobbediente, alternativa, altrimenti perde le sue caratteristiche strutturali, sia la sua ingenuità secolare sia il suo radicalismo conoscitivo. Spesso l'arte si capisce dopo, spesso le sue profezie sembrano assurdità esoteriche ma il tempo finisce per darle ragione, come succedeva a Cassandra sulle mura di Troia. Anche oggi in tempi in cui parlare di utopia sembra quasi una perversione, l'arte non cessa di richiamarci al dolore dell'umanità, alla difficoltà di comprensione reciproca, alla contraddizione tra la felicità cercata e la realtà vissuta. Proprio per questo l'arte è uno dei simboli più evidenti della globalizzazione, è riuscita a superare i linguaggi nazionali e a trasformarsi in una koinè che, pur rischiando l'omologazione mercantile, riesce ad essere strumento di unificazione e di interdipendenza come pochi. Dentro questo arco molto teso rintracciamo le mostruosità espressionistiche di Paolo Dolzan, i lirismi di Paolo Tartarotti, le fughe celesti di Alessandra Binini, ma anche la forza compositiva di Renato Galbusera e di Maria Iannelli, la vastità onirica di Vincenzo Balena, gli sconvolgimenti di Tonino Cragnolini, l'inquietudine di Remo Pasetto, il tremore interiore di Gaetano Pallozzi. Ci scontriamo con la reinvenzione giocosa di Erik Zwezerijnen e con le trame ironiche e pazienti di Wolfgang Lehmann, ma anche con la malinconia del paesaggio di Vitalij Popov e con le sfingi apocalittiche di Bilge Alkor. Nina Jurk inventa le più grandi libertà nella natura, mentre Norbert Klora le prefigura metafisicamente. Irfan Hozo ci porta dentro le rovine dell'occidente, Safet Zec ci copre con l'inquietudine di alberi-funghi giganti. Lydia Jonkman si ritrova nella distesa centralità della figura femminile, Martin Micharvegas nell'allegria disperata dei deboli. Ecco Burchard Aickele o della turgida apparizione, ecco Wolfang Menz o della vitalità strafottente, ecco Reinhard Hoheisel che denuncia il potere quando si fregia del nome di Dio. Ci troviamo di fronte ad un esempio concreto e coinvolgente della nuova universalità dell'espressione artistica anche se ci fermiamo ai confini estremi dell'Europa. In questo contesto ogni artista porta con sé le proprie particolarità, i sedimenti storici dai quali proviene e nello stesso tempo si trova allacciato agli altri in una ricerca che ormai non conosce più il concetto di confine. Il bene e il male, la solitudine e la relazione, il sogno e la quotidianità, la ricerca di un mondo diverso e il sentimento della precarietà umana, tutto ciò ritroviamo anche in questi artisti sotto forma di stato di coscienza in immagine. L'arte dimostra di non essere utopia anche quando insegue l'utopia.
organizzazione: Arci del Trentino