La segheria Moruzzi (1948-1985) Lavoro, impresa, comunità
Ultimi giorni per vedere immagini d'epoca narranti la storia di un territorio e della sua comunità
Fino all'11 giugno presso il Palazzo de Maffei di Lavis (da martedì a venerdì, ore 17.00-19.00; sabato e domenica, ore 10.00-12.00; 16.00-19.00. Lunedì chiuso. Ingresso libero. Per le scuole sono possibili aperture e visite su prenotazione) è allestita La segheria Moruzzi (1948-1985). Lavoro, impresa, comunità. La mostra - organizzata dalla Fondazione museo storico del Trentino e curata da Alberto Ianes, Giovanna Moruzzi, Alberto Tomasi - ripercorre la storia di un'azienda che ha dato un importante contribuito alla crescita del territorio del basso Avisio subito dopo la Seconda guerra mondiale e fino agli anni Ottanta.
Quasi duecento sono state, infatti, le persone impiegate nel lavoro della segheria nel momento della massima espansione dell'attività, e diversi anche gli studenti che nei mesi estivi trovavano qui la possibilità di dare una mano economica alla famiglia. A Lavis,in valle di Cembra e fino alla periferia di Trento era facile sentir dire "Lavoro al Moruzzi", e quando si passava nella piana di Lavis il profumo del legname tagliato era penetrante.
Il catalogo edito dalla Fondazione del museo storico del Trentino, in questo senso - con interessanti sguardi di approfondimento ed evocative immagini d'epoca - ricostruisce i diversi aspetti di una vicenda conclusasi negli anni Ottanta. Rileggere, o per i più giovani leggere per la prima volta tale vicenda significa esplorare un ben riuscito intreccio tra "Lavoro, impresa, comunità", i tre termini di analisi suggeriti dal titolo.
Rinviando quindi alla lettura del catalogo, diamo spazio alla parte introduttiva del saggio del curatore Alberto Ianes, che ripercorre la storia della segheria Moruzzi partendo da "Il dopoguerra e il mondo del lavoro in Trentino e a Lavis".
"Quando, nel 1948, la segheria fratelli Moruzzi muoveva i suoi primi passi nell’area di Lavis, il Trentino era alle prese col delicato momento della ricostruzione postbellica e con i problemi di riattivazione del tessuto produttivo locale. L’economia presentava limiti non indifferenti . L’agricoltura costituiva l’attività portante, al punto che ancora nel 1951 assorbiva il 40,07% della popolazione attiva. Il mondo contadino era però piccolo, gravato da uno spezzettamento fondiario: solo il tessuto cooperativo sostenuto da un’apposita legislazione riuscì a dare valore di mercato all’agricoltura, in una condizione però diversa da quella dell’Alto Adige, connotata dalla figura del bauer sudtirolese e dal maso chiuso.
Per il resto l’economia trentina era poca cosa: limitato il settore dei servizi, acerbo il turismo, inconsistente l’industria, non comparabile all’area industriale di Bolzano, spinta dal fascismo per sostenere il processo di italianizzazione forzata di quella provincia. L’unico settore capace di dimostrare un barlume di vivacità era l’industria idroelettrica, che muoveva grandi capitali e grossissimi interessi, ma soprattutto da fuori regione. E generava occupazione, ma limitatamente al tempo di costruzione delle centrali, senza riuscire a frenare il flusso migratorio: tra il 1949 e il 1956 si scrisse una delle pagine più tristi dell’emigrazione trentina, quella dell’esodo pilotato verso il Cile.
Alla fine degli anni quaranta, un documento di sintesi della Camera di Commercio di Trento parla di “area economica depressa”. A firmarlo Alberto Mattedi, che si muoveva con cognizione di causa nella materia, avendo davanti un quadro statistico aggiornato: era a capo dell’Ufficio provinciale di statistica dell’istituto camerale. Non si estraniava da questo contesto nemmeno Lavis. Un paese che in passato aveva destato più d’un interesse – ci ricorda nella sua meticolosa e ponderosa ricerca Albino Casetti – ; Lavis come “punto di passaggio obbligato dell’antica via più frequentata fra la Germania e l’Italia (scelta anche dai Re di Germania per l’incoronazione a imperatori); luogo di discusse scoperte dell’epoca longobarda; di antiche miniere; poi per secoli a vario titolo paese di confine, notevole per il fluire continuo di traffici commerciali, ma anche luogo di transito di reggimenti armati portatori di guerre e di pestilenze”.
E poi come non mettere in relazione Lavis con il torrente che lo attraversa: l’Avisio. Un corso d’acqua, rileva Casetti, da cui innanzitutto bisognava ripararsi e proteggersi, specie di fronte alla sua “furia devastatrice”. Ma un torrente che, di contro, era anche “ragione di vita: per l’irrigazione delle campagne; per far muovere ruote di mulini, fonderie, fucine, segherie, filande; per la fluitazione dei legnami dalle foreste della val di Fiemme ai ‘Vodi’ di Lavis, dove venivano approntati per il trasporto sull’Adige verso l’Italia, e dei quali abbisognava e fruiva in primo luogo il paese”
Un passato, dunque, artigiano e contadino. Un mondo del lavoro che non era molto diverso nemmeno nel secondo dopoguerra. A metà anni cinquanta – rileva Casetti – gran parte della popolazione era ancora contadina. Fin dal 1948 un gruppo di viticoltori acquistò la ex Cantina Cembran, che diventò sede della Cantina sociale Lavis-Sorni, rimodernata e resa funzionale alle nuove esigenze. Risaliva ai primi anni sessanta, invece, il Consorzio ortofrutticolo 5 Comuni, che associava i frutticoltori di Lavis, Nave San Rocco, Giovo, Zambana e Meano. Li coordinava valorizzandone le produzioni ai fini commerciali.
In paese poi vi erano diversi artigiani, ci ricorda Fabio Franceschi, in una pubblicazione promossa dall’associazione culturale lavisana. Operavano varie fucine, alcuni sarti e calzolai. Molti di loro avevano la bottega direttamente sotto casa, negli avvolti. Per esempio quella del calzolaio Giovanni Gadotti, dislocata al civico 57 di via Matteotti, dove esercitò l’arte del calzolaio fino alla morte, nel 1963, proseguita poi dal figlio Mario, al quale consegnò i ferri del mestiere. Solo i più abbienti, come la famiglia Obrelli, potevano permettersi un piccolo laboratorio e una vetrina con affaccio sull’esterno, in cui venivano esposte le calzature. C’erano però anche gli Obrelli orologiai: Italo si era fatto le ossa sulla bici, in giro a riparare orologi. Poi con la moglie Ada iniziò a gestire una bottega tutta nuova. Luigi Pezzi aveva invece un’officina di fabbro, ma dopo un infortunio l’avrebbe ceduta ai due nipoti che continuarono a realizzare aratri, vanghe, zappe, badili, cioè piccoli strumenti di lavoro e di campagna.
Ma a Lavis operavano anche delle sartorie, ad esempio quella del signor Livio, situata in via Matteotti 44. Vi era pure chi esercitava l’arte del mugnaio e del falegname. Erano attivi ancora dei lattonieri, dei piccoli negozi, un laboratorio di serrature e di costruzione di cucine economiche, i cosiddetti “fogolàri”. Infine, non potevano mancare le segherie. Alcune operavano in paese, come la “Dalmaso” e quella dei Casagrande, originari di Gardolo. Le più erano disposte tra Lavis e Zambana, per esempio la segheria Marchi e quella dei fratelli Moruzzi".
22/05/2017