Linguaggio di genere: la lingua e la società che cambia
L'utilizzo della lingua come strumento per contrastare discriminazioni e promuovere inclusioni. L'appuntamento è per giovedì 5 marzo alle 14 a Trento presso il Dipartimento di sociologia e ricerca sociale (via Verdi, 26).
Uno sguardo alle ultime tre generazioni di donne basta per capire la portata del cambiamento di ruoli sociali che ha investito le pari opportunità, la cui rapida ma non ancora sufficiente conquista ha profondamente modificato costumi, professioni e condizioni di vita sia pubblica che privata delle donne e di conseguenza anche degli uomini.
Questa trasformazione sociale e culturale coinvolge anche la lingua, il cui rapporto con la realtà non è mai neutro né a senso unico. La lingua non sa quasi mai rispecchiare del tutto la realtà, cerca di avvicinarla, a volte la riflette, altre la disegna, talvolta la restituisce degnamente altre la oscura e distorce, in certi casi si adegua ai cambiamenti sociali raffigurandoli in modo trasparente e nuovo, in altri li contrasta mettendoli sotto silenzio o continuando a nominarli secondo parametri desueti, qualche volta concorre alla loro produzione attraverso costruzioni linguistiche che ne anticipano l’avvento.
La lingua non ha il potere di dire tutta la verità; come la realtà, la lingua non è mai statica. Anzi, semplicemente la lingua non è, fa. La lingua produce degli effetti, con i propri limiti e la propria libertà, su quella realtà che senza lingua non potremmo nemmeno cominciare a comprendere e gestire. La lingua fa perché siamo noi parlanti a fare la lingua (secondo regole grammaticali ma non secondo i dizionari, che raccolgono non normano il lessico), il nostro dire mette in circolazione parole in un processo continuo che va gestito con consapevolezza, altrimenti noi parlanti diventiamo soggetti di un verbo passivo—essere parlate o parlati—anziché agenti del verbo attivo parlare. Il rischio è alto: evidentemente senza lingua non possiamo agire, pensare né sognare. La lingua investe tutte le sfere della nostra esistenza, sta a noi usarla con cura in modo tale da evitare distorsioni, oscuramenti, messe a tacere di parti del nostro vissuto.
Per esempio, andiamo agli anni della Guerra fredda, l’inizio della gara per la conquista dello spazio: nel 1961 troviamo il “primo uomo” nello spazio, Jurij Gagarin, e nel 1963 la “prima donna” nello spazio, Valentina Tereškova; poi nel 1969 arriva Neil Armstrong, il “primo uomo” a posare il piede sulla luna, mentre per trovare la “prima donna” americana nello spazio dobbiamo aspettare il 1983 con Sally Ride. Come sappiamo la “prima donna” italiana nello spazio arriva ora, nel 2014, e si chiama Samantha Cristoforetti. E’ una storia fatta da uomini e donne. In lingua italiana, che potremmo dire sessuata perché declina le parole secondo il genere femminile o maschile, diciamo che ci sono astronauti e astronaute. Al singolare astronauta è sostantivo ambigenere, invece flette al plurale, comunque l’articolo (lo/la, un/una) distingue l’uomo o la donna dietro la parola. Samantha è dunque un’astronauta con l’apostrofo, che partecipa alla conquista non dell’Uomo ma umana dello spazio.
Un uso consapevole e critico della lingua può darci gli strumenti non solo per migliorare la comunicazione, ma anche per contrastare discriminazioni e promuovere inclusioni, comprese quelle palesi nel linguaggio istituzionale. Obiettivo di questo incontro è riflettere, per esempio, sul perché, mentre un’astronauta di origini locali è nello spazio, il sito dell’Università di Trento dà il benvenuto solo a un “futuro studente” escludendo dal proprio linguaggio le centinaia di donne che con successo frequentano l’Ateneo.
02/03/2015