Il senso del sacro nella società contemporanea
Come mai l’esperienza del sacro è insita nell’umanità fin dalla notte dei tempi ed è ancora oggi molto diffusa? In che cosa consiste? E come giudicarla?
Il teologo Vito Mancuso propone la seconda riflessione che anticipa i temi trattati dagli spettacoli della rassegna “Altre Tendenze”. L'appuntamento è giovedì 11 febbraio alle 17.30 a Trento, Teatro Cuminetti.
Un intervento che si articola in tre momenti che tentano di affrontare gli interrogativi posti rispondendo a tre interrogativi:
- come nasce e che cos’è l’esperienza del sacro;
- di che cosa è segno;
- quali sono i suoi criteri di autenticità.
Ecco le riflessioni che Mancuso ci anticipa in proposito:
1. Che cos’è e come nasce
Il senso del sacro nasce laddove il soggetto percepisce di trovarsi al cospetto di qualcosa di più grande di sé, laddove viene come avvolto dalla maestà dell’essere. La tesi appena formulata si può riesprimere dicendo che il sacro suppone la seguente esperienza: “Essere > Io”.
Ne viene di conseguenza che il contrario del sacro, la sua completa assenza, è esprimibile in quest’altro modo: “Io = Essere”, o anche peggio: “Io > Essere”. Laddove l’uomo non percepisce nulla di superiore a se stesso dal punto di vista del valore, nulla che valga più di se stesso, non ci sono le condizioni ontologiche per la nascita del senso del sacro. Il sacro infatti vive dell’equazione “Essere > Io”; o anche “Vita > Io”, o anche “Verità > Io”.
Le condizioni ontologiche del sacro sono descritte da ciò che Friedrich Schleiermacher (1768-1834) chiama “sentimento di dipendenza” facendone giustamente, a mio avviso, il fondamento originario, primordiale, sorgivo, del sacro, e quindi della dimensione religiosa. Perché una cosa deve essere chiara: senza sacro, nessuna religione. Se il soggetto non percepisce qualcosa di più importante di sé, non compirà mai il movimento della religio, cioè il volersi legare a qualcosa di più grande e di più importante di sé.
Se la religione è ciò che diceva Alfred North Whitehead in una delle più belle definizioni di religione che io conosca, cioè “Religione è quello che l’individuo fa della propria solitudine” (Religion in the Making, p. 16), io mi permetto di aggiungere che la religione autentica consiste nel legare la propria solitudine al senso complessivo dell’essere, al tutto della vita nel quale ognuno si trova immerso, non riducendo il senso complessivo della vita a se stessi, ma dilatando il proprio sé sul senso più grande del tutto. Alla base di questo legame col tutto vi è, come appare evidente, la percezione, a volte fonte di meraviglia a volte di terrore, della propria piccolezza e della propria dipendenza.
Sul sentimento di dipendenza quale prima e originaria percezione del sacro, ho tenuto a precisare di essere d’accordo con Schleiermacher perché Hegel criticava la sua impostazione col dire che se fosse vero che la religione nasce dal sentimento di dipendenza gli esseri più religiosi dovrebbero essere i cani, perché nessuno come loro è alla ricerca di un padrone. A mio avviso la critica di Hegel è pertinente per quanto concerne il compimento della religione nella sua forma più matura, la quale non può rimanere ferma allo stadio del sentimento di dipendenza e alla subordinazione, ma deve salire al sentimento della figliolanza, anzi, ancora di più all’amicizia (vedi Giovanni 15,15: “Vi ho chiamati amici”), la quale può nascere e svilupparsi solo sulla base dell’eguaglianza. “L’amicizia è uguaglianza”, scrive Aristotele (vedi Etica nicomachea, VIII,7, 37; 1158 a), rifacendosi a Pitagora. Per quanto però concerne il sorgere del senso del sacro, penso che Hegel abbia torto rispetto a Schleiermacher: il sacro infatti nasce come sentimento della dipendenza, presuppone la coscienza di essere al cospetto di qualcosa di più grande, più forte, più degno di valore, più importante, di noi. Se gli uomini hanno posto qualcosa come sacro (un luogo, un tempo, un animale, un fenomeno naturale, un libro, altri uomini, il potere, un partito, il denaro, il sesso…) è perché se ne sono sentiti in dipendenza. Una dipendenza fisica, psichica, spirituale.
2. Di che cosa è segno
Uno dei più grandi filosofi italiani del ‘900, Norberto Bobbio, di chiaro orientamento laico, nello scritto noto come Ultime volontà, pubblicato su “La Stampa” il 10 gennaio 2004, il giorno dopo la morte, ha scritto: “Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi” (cito dal Meridiano dedicato a Bobbio, Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di Marco Revelli, Mondadori, Milano 2009, p. CXXV). Gli uomini che pensano in profondità sanno, e prima ancora sentono, di essere “immersi nel mistero”: è proprio l’esercizio rigoroso della ragione a condurli a ciò.
Ecco quindi la seconda tesi: il senso del sacro è segno di retto esercizio della ragione. È la ragione, non la fede, a porre il soggetto di fronte al mistero.
Mistero è un termine troppo spesso abusato, vero e proprio refugium theologorum di tutti i tempi. È altresì noto a tutti che la ragione ha una funzione chiarificatrice, illuminatrice, che disperde le tenebre dell’ignoranza. Io, che sono un simpatizzante dell’Illuminismo, ritengo che la luce del sapere sia sempre meglio dell’oscurità della fede. Quando una cosa si sa, è sempre meglio di quando semplicemente la si crede. Sono però anche convinto che la ragione debitamente esercitata, mentre illumina alcune zone dell’essere, conduce a cogliere con maggiore consapevolezza il senso di non poter mai giungere a padroneggiare il senso complessivo del tutto. “Nessuna formula può contenere tutta la pienezza della vita”, ha scritto un altro grande cultore della ragione quale fu il matematico e teologo Pavel Florenskij nel suo capolavoro speculativo intitolato La colonna e il fondamento della verità (ed. it. p. 194).
Nelle parole di Bobbio che, “come uomo di ragione e non di fede”, giunge alla consapevolezza di un mistero dell’essere e della vita che la ragione non riuscirà mai a risolvere, io sento rivivere la grande lezione di Immanuel Kant, con la posizione delle quattro antinomie della ragione pura:
- se il mondo abbia inizio oppure sia eterno;
- se l’essere sia composto di parti semplici oppure no;
- se il divenire abbia una necessità e un piano, oppure tutto sia caso e libertà;
- se ci sia Dio oppure no.
La ragione di fronte a tali questioni non ha elementi stringenti per decidersi, vede dialetticamente la verità di un assunto e anche dell’altro, e se non si rassegna a fermarsi, se non sceglie unilateralmente ma continua a muoversi ora vedendo le ragioni della tesi ora vedendo quelle dell’antitesi, entra necessariamente nell’antinomia, ossia nel contrasto tra due leggi entrambe valide ma in contraddizione tra loro. Da qui il mistero. Ha scritto Pavel Florenskij: “Kant ebbe l’ardire di pronunciare la grande parola «antinomia», che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna” (La colonna e il fondamento della verità, p. 206).
Il mistero non è dato dall’impoverimento dell’esperienza vitale, come per esempio dall’ignoranza o dall’oppressione, ma ben più radicalmente dall’eccedenza della vita con le sue molteplici e contraddittorie manifestazioni. Per questo, per citare ancora una volta Florenskij, “quanto più ci si avvicina a Dio, tanto più chiare sono le contraddizioni” (La colonna e il fondamento della verità, p. 205). Il sacro nasce dall’eccedenza della vita, sperimentata dalla coscienza umana di ogni tempo e di ogni luogo: se l’uomo da sempre ha posto qualcosa come “sacro”, l’ha fatto per esprimere il sentimento radicale di essere circondato, direi immerso, e a volte anche sommerso fino a provare la sensazione del naufragio, in una realtà molto più grande di lui, che egli deve scoprire, comprendere, servire. In questa prospettiva, senso del sacro e retto esercizio della ragione guardano nella medesima direzione. Più utilizzi la ragione, più aumenta il senso del sacro.
Questo nesso appare oggi ancora più vero alla luce di ciò che la scienza ci fa conoscere in ordine alla vita e alla sua origine, il mistero per eccellenza. Se pensiamo alle probabilità contrarie al darsi della vita nello scenario cosmico, e insieme al dato che la vita tuttavia c’è, e che è una meraviglia e insieme un terrore di contrasti e di relazioni, io penso che non si possa non parlare di mistero e quindi giungere a nutrire un profondo e arcano senso del sacro di fronte a essa. Anzi, proprio questa è la fondamentale e decisiva radice che ci fa parlare legittimamente di sacro: la vita e il suo darsi. Per quanto mi riguarda non avverto maggiore rispetto (sentimento che traduce la coscienza di essere al cospetto di qualcosa di più importante di me, cioè del sacro) di quello percepito di fronte alla vita e al suo darsi, alla natura-physis, alla physis optima deitas di Giordano Bruno, alla Natura naturans di Spinoza.
Dicendo queste cose tra i cristiani si corre il rischio di essere considerati panteisti, esoterici, new age, sincretisti... Io non sono d’accordo. Io penso che qui tocchiamo un punto delicatissimo, il compito immenso che si impone al nostro tempo di conciliare l’antropocentrismo (tipico del cristianesimo occidentale) con il retto sentimento del cosmo che dovrebbe essere nella mente di chi crede che Dio è il creatore di tutte le cose, e che tale creazione non riguarda un lontano momento iniziale, ma è un processo continuo che avviene giorno per giorno, minuto dopo minuto, e di cui una delle più alte manifestazioni è il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. La nostra epoca ha conosciuto qualcosa di molto simile, di altrettanto alto, negli scritti, e prima ancora nella vita, di Albert Schweitzer.
Kant conclude la Critica della ragion pratica con le celebri parole che contengono la dichiarazione di quanto per lui era sacro: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” (Critica della ragion pratica, ed. it. a cura di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano 2000, p. 319). Il compito del nostro tempo è mostrare che queste “due cose” in realtà sono una cosa sola, perché è dalla logica del cielo stellato sopra di noi che si produce la legge morale dentro di noi.
3. Quando è utile e quando è dannoso
La terza tesi sul sacro concerne i criteri di autenticità, cioè la possibilità di distinguere quando esso è utile e quando invece è dannoso, perché non ci sono dubbi che dal senso del sacro e dalla religione che ne fuoriesce siano derivati e continuino a derivare anche tanti guai all’umanità. La tesi è la seguente: Nella misura in cui il senso del sacro codificato dalle religioni è al servizio dell’originario senso del sacro che è il mistero della vita, è buono; nella misura in cui è fine a se stesso, è negativo.
La religione è al servizio della vita, non è la vita a essere al servizio della religione. Se la fede non genera una sapienza come servizio della vita è vana, può essere anche dannosa, non di rado lo è. Il primato della vita rispetto alle dottrine mi porta a sostenere, come ho scritto nel libro L’anima e il suo destino, che è meglio un ateo felice e onesto, che un credente infelice e disonesto. L’obiettivo è la pienezza dell’umanità, di cui la fede è solo uno strumento. Dio, il Principio dell’essere, non ci ha creati per credere, ci ha creati per essere.
Le diverse religioni pongono il senso del sacro in oggetti o momenti particolari: riti, liturgie, gerarchie istituzionali, dogmi, dottrine, leggi coi loro precetti positivi e precetti negativi, libri sacri (tra cui Bibbia cattolica, Bibbia protestante, Bibbia ebraica detta Tanak, Talmud, Corano, Veda, Upanishad, Bhagavad Gita, Canone pali, Canone tibetano, Avesta, Tao Te Ching, i Cinque Classici del confucianesimo…). Io ritengo che tutto ciò abbia valore nella misura in cui rimanda alla primordiale sacralità della vita, da rispettare sempre in tutte le sue forme, piante, animali, uomini. La fede è al servizio della vita, non viceversa.
Concludo con un’osservazione proprio sulla sacralità della vita in quanto vita umana. La vita umana si compie in quanto vita libera. Il massimo del rispetto lo si deve attribuire alla vita libera, alla libertà che si autodetermina. Rispettare la vita umana significa rispettare la vita libera, perché il senso dell’umanità è la libertà. In concreto questo significa garantire sempre la possibilità dell’autodeterminazione, lottando idealmente perché ognuno si autodetermini non riducendo il senso del tutto a sé (Io = Io) ma aprendo se stesso alla logica più ampia della natura-physis che l’ha portato all’esistenza (Essere > Io).
10/02/2016